Burioni, un brand di successo. Ma è anche una comunicazione efficace?

Articolo scritto da Luca Poma, Professore di Reputation Management e Scienze della Comunicazione all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino.


L’interessante e centrato articolo sul “brand Burioni” non può non stimolarci però anche riflessioni sull’efficacia del “brand” in questione nel raggiungere l’ampio pubblico dei cittadini e orientarne la consapevolezza, nonché sul ruolo della comunicazione in scienza, e sul corretto atteggiamento da tenere per chi ha l’ambizione di rivestire il ruolo del “divulgatore”.

 

Colmare il gap tra esperti e gente comune

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Per farlo, torniamo per un attimo all’Inghilterra della Thatcher, anni caratterizzati da crisi economica, marcate problematiche sociali, malcontento popolare e rifiuto delle “elites”, incluse ovviamente quelle scientifiche: già allora il luogo comune dei “poteri forti” aleggiava sulla cittadinanza, utile pretesto per tentare di legittimare qualsiasi autorità costituita.

In quel contesto, gli scienziati capirono quanto poteva essere importante uscire dai loro laboratori ed entrare in contatto con la società, e lo fecero nel modo per loro più ovvio, “ovvero mettendosi in cattedra”, come ci ricorda un bell’articolo del medico e pubblicista Roberta Villa pubblicato sull’edizione italiana di Wired. Nel 1985, la Royal Society, che riunisce appunto l’elite del mondo scientifico di Oltremanica, produsse un documento intitolato The Public Understanding of Science (1) (da cui l’acronimo PUS). Una cinquantina di pagine di analisi e proposte concrete, che riflettevano le basi dell’approccio che per i successivi vent’anni avrebbe dominato la comunicazione della scienza, il cosiddetto “deficit model”: secondo questa datata teoria, che oggi dopo decenni qualcuno in Italia vorrebbe riportare in auge, l’ostilità di parte del pubblico nei confronti di alcuni avanzamenti della scienza dipenderebbe dalla mancanza delle informazioni necessarie per capirla e apprezzarla; se i ricercatori, la scuola, i media, gliele fornissero, la gente imparerebbe ad apprezzare il valore culturale della scienza, dell’arte o della letteratura, e tutti acquisirebbero una conoscenza sufficiente per condividere e sostenere le richieste dei ricercatori, anche a livello politico ed istituzionale, con il risultato che i finanziamenti alla ricerca aumenterebbero. Nei campi in cui queste nozioni hanno poi un impatto sulla vita concreta delle persone, dalla salute all’agricoltura, dalla chimica all’ambiente, colmare il gap tra esperti e gente comune dovrebbe bastare – scrive Villa – a far cambiare anche i comportamenti, sulla base delle nuove nozioni acquisite. Con il passare del tempo però, è apparso evidente che le cose sono un ben più complicate di come allora poteva apparire.

 

Ognuno elabora le informazioni in modo diverso

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Le informazioni che riceviamo sono infatti accolte ed elaborate in maniera differente anche in relazione al nostro background culturale e sociale, al nostro sistema di valori e credenze, alle esperienze che ciascuno di noi ha avuto direttamente, di cui è stato testimone, o che gli sono state raccontate. Ogni comunicatore – in particolare se si occupa di scienza – sa bene che di tutte queste cose deve tenere conto, adeguando il messaggio e il suo tono al target che desidera raggiungere e al canale che sta utilizzando. “Mettersi in cattedra”, quindi, può andar bene in un’aula universitaria, dinnanzi a studenti che per il semplice fatto di essere lì riconoscono al professore un’autorità e un potere, ovvero questo approccio dall’alto al basso può essere rassicurante per persone confuse e con pochi strumenti culturali, che trovano un punto di riferimento forte a cui affidarsi; ma per contro può diventare invece controproducente se si ha a che fare con un pubblico più colto e mediamente preparato, come molti dei genitori che, proprio per aver cercato di informarsi il più possibile per valutare le scelte sanitarie più opportune per i propri figli, sono incappati in fonti inattendibili che hanno instillato in loro dubbi o paure, come ci ricorda sempre Villa nel suo articolo.

Andrea Grignolio, storico della medicina, nel suo libro “Chi ha paura dei vaccini?” (2) riflette poi sulle circostanze sociali e individuali e sui bias neurocognitivi che hanno favorito la diffusione di atteggiamenti esitanti nei confronti delle vaccinazioni: se un genitore ha paure legate a un’alterata percezione del rischio, ad esempio in seguito a scandali che hanno realmente coinvolto aziende farmaceutiche, oppure rappresentanti di istituzioni sanitarie che si sono rivelate corrotte, ha perso fiducia in queste autorità, o se è rimasto segnato dal racconto o dall’esperienza personale di una disabilità erroneamente attribuita – ad esempio – a una vaccinazione, non sarà certo facendogli una lezione di immunologia su Facebook, deridendolo o insultandolo che gli si potrà fare cambiare idea, sostiene Villa nel suo articolo. Come non essere d’accordo? tanto più che «le evidenze – aveva dichiarato sempre a Wired proprio Grignolio in un’intervista – ci dicono che sfidare le persone esitanti o contrarie ai vaccini non serve, come accennato sopra: il rischio è quello di radicalizzare le posizioni contrarie. Limitarsi a dire “Non è così, io ho ragione e tu torto”, è sbagliato, rischia di diventare uno scontro di identità in cui le nuove informazioni non fanno che aumentare le posizioni contrarie».

 

Empowerment del cittadino e del paziente

La sfida, molto più difficile, consiste quindi nel fornire a chiunque, in relazione alle sue possibilità, gli strumenti per fare scelte consapevoli e, possibilmente, scientificamente fondate: questo è l’empowerment del cittadino e del paziente, un nuovo modello, che prevede il coinvolgimento del pubblico non più visto come un “contraltare passivo” da riempire di informazioni, ma come un interlocutore attivo, con il quale interagire a vantaggio di entrambe le parti. Queste considerazioni sanciscono il passaggio dal vecchio modello PUS al nuovo modello PEST: Public Engagement with Science and Technology.

Si tratta di un cambiamento totale di prospettiva, sostiene giustamente Villa, che vede comuni cittadini collaborare con i ricercatori (potremmo definirli – in modo forse originale ma ben centrato – “citizen science”?) e i pazienti poter dire la loro negli indirizzi di ricerca degli scienziati, nient’altro, in fondo, che “un’estensione di quella multidisciplinarietà che ha portato fisici, ingegneri ma perfino filosofi nei laboratori di biologia molecolare, con la consapevolezza che chiunque può essere portatore di un piccolo pezzo del puzzle della conoscenza umana, di cui sarebbe un peccato privarsi”. A sancire questo cambio di rotta è arrivato nel 2017 il documento della National Academies of Sciences, Engineering (3) and Medicine statunitense, un’agenda, concordata da scienziati e comunicatori della scienza, che parte da un punto fermo: la comunicazione della scienza è un compito complesso, non riducibile alla dinamica «Se la pensi diversamente da me che sono un esperto sei solo un ignorante».

 

Queste analisi di carattere più generale, ben articolate grazie al contributo di colleghi, divulgatori e giornalisti, ci permettono di arrivare finalmente al punto, e di dimostrare la fallacia del metodo Burioni secondo cui

«La scienza non è democratica».

In questo caso si confonde la democrazia come processo elettorale, con la democrazia come partecipazione comunitaria. Come scrive il giornalista scientifico Pietro Greco,

«La società della conoscenza è caratterizzata dall’espansione della scienza e dall’espansione della democrazia, in un processo in cui le due dimensioni non sono più separate».

E aggiunge:

«La scienza, anche in termini epistemologici, ha valori intrinsecamente democratici. Fin dalla rivoluzione del Seicento, i membri della comunità scientifica raggiungono un consenso razionale di opinione intorno ai fatti osservati nel mondo».

Per dirla con le parole di Jane Gregory (4), della London University:

«Il pubblico ci ha insegnato una lezione utile rifiutando di cooperare con scienziati che li trattavano come idioti. È un peccato che così tanti dei nostri scienziati di spicco abbiano causato così tanta irritazione tra persone precedentemente amichevoli verso la scienza. Molti di noi che lavorano in questo campo in Gran Bretagna sperano che il recente rapporto della Camera dei Lord renderà gli scienziati consapevoli del fatto che devono guadagnare il loro posto come una delle tante autorità della società. È tempo di riconoscere che la nostra prima enfasi sull’apprendimento pubblico da parte degli scienziati era fuori luogo e che ciò di cui abbiamo bisogno è che gli scienziati imparino dalle persone».

Di sicuro quindi atteggiamenti paternalistici che si leggono in questi mesi online, del tipo “Ora vi insegniamo a”, o peggio ancora aggressivi e impositivi, paiono del tutto fuori luogo in quanto limitano l’efficace circolazione delle idee e dei valori che gli stessi divulgatori scientifici vorrebbero in tutta buona fede trasferire alla cittadinanza. Alla luce di ciò, al netto della spontanea “simpatia” che il Dott. Burioni stimola con le sue eccentriche esuberanze, non possiamo che concludere per la parziale inefficacia delle Sue strategie di comunicazione e di stakeholder engagement: ce lo conferma quella stessa scienza che Burioni definisce con superficialità un po’ tranchant come “non democratica”.


(1) Durant, J.R., et al. The Public Understanding of Science. Nature, Vol. 340, pp.11-14.

(2) Grignolio A., Chi ha paura dei vaccini?, Tempi Moderni, Codice, 2006

(3) Evans G.A. and J. Durant J.(1995), The Relationship Between Knowledge and Attitudes in the Public Understanding of Science in Britain. Public Understanding of Science Vol. 4, pp.57-74, 1995

(4) Gregory J. and Miller S., Science in Public: Communication, Culture and Credibility, New York: Plenum, 1998

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